Pure l’evento della fiera, in passato, fu una delle usanze caratteristiche, rituali, ed entrò anche nel mondo delle fiabe: quello che “va in fiera a vendere l’asino”. Caratteristiche furono pure le fiere storiche di Sicilia, tra le più antiche peraltro, e documentate nella Collezione Delle Leggi e de’ Decreti Reali del Regno Delle Due Sicilie curata da Domenicantonio Vacca e risalente al 1841 [3]. La fiera nei millenni divenne momento rituale nelle comunità grandi e piccole.
Pure Galati Mamertino l’ebbe, almeno sino agli anni Quaranta dello scorso secolo. In quel tempo avere un mezzo di locomozione era impossibile perché il comune non era collegato alla viabilità nazionale; il quadrupede era “l’automobile” e con quello, piano, s’arrivava dovunque. Quasi ogni famiglia ne possedeva uno. Come dimenticare il piacere di una lunga cavalcata? Anche quando conducevo il mulo all’abbeveratoio montavo in groppa, spesso a nudo pelo. Con quello che la famiglia aveva dopo i miei sei anni d’età me lo potevo permettere. Subito dopo sposato, invece, mio padre aveva acquistato una mula, il cui solo pensiero mi fa ancora accapponare la pelle.
Esteticamente un bell’uomo, longilineo, senza un filo di prominenza addominale, eternamente canticchiante un motivetto, specie nell’ispezione lenta alla sua vigna: così amo ricordare mio padre. Sposò mia madre che era povero in canna. Mi raccontava che il futuro suocero, che poteva dare una piccola dote alla figlia, lo voleva cacciare via perché non poteva portare al nuovo ménage neppure una mucca: Mi maritai, diceva, c’un paru di bertuli curti [4]. Ma era troppo un bell’uomo, perché mia madre se lo facesse sfuggire: U vosi e mu pigghiai!, continuò a dire ogni volta che se ne parlava; ed ebbe ragione.
A quel livello, davanti a un uomo si ponevano due strade: quella dell’arricchimento facile e spregiudicato e quella del lavoro duro e onesto. Mio padre scelse quest’ultima, per innata rettitudine. Da solo tuttavia non avrebbe potuto fare molta strada; un quadrupede ci voleva e il giorno dei Ss. Pietro e Paolo si recò dda fera di Pileri [5]. Qui si davano appuntamento ogni anno i venditori di bestiame; facevano loro da corona i venditori di utensili da campagna, di finimenti per cavalli: qualche sella, i basti rifiniti a colori sgargianti, la cavezza con fiumi di pennacchi e decine di campanelli, pezzi che oggi fanno bella mostra nelle “tavernette” delle case signorili. E poi c’erano le bancarelle con l’immancabile calia a ddu bbotti, a calia ‘e Nasu. Accertata la presenza di un compratore, si metteva in azione u sinsali, cioè il mediatore. La tecnica era sempre la stessa, mutuata dai costumi della lunga dominazione araba: richiesta alle stelle, offerta irrisoria; il sensale che faceva la spola; l’uno alzava qualcosa, l’altro abbassava il doppio, infine fra una bestemmia e una imprecazione si arrivava alla stretta di mano [6].
Ma anche quella tecnica con mio padre non poteva quadrare.
– Cumpari, chi vuliti?
– Na mula bedda.
– E i sordi l’avìti?
– No, picca nn’hai!
– E porcu diauluni, e comu vi pozzu fari ccattari na mula bedda cu quattru sordi?
Ma lui più cocciuto della mula che andava cercando, non si arrendeva.
– E ora taliu [7] ia!
– Taliati, cumpari, e si truvati carcosa, mu faciti sapiri …
Ve n’erano di muli bellissimi nello spazio della fiera, ma di ogni esemplare se, con i soldi che mio padre aveva ‘nta pitturina, comprava una zampa, ne restavano fuori tre. E girò in lungo e in largo fin quando sentì un nitrito superbo e pauroso. Si volse e vide uno splendido esemplare di mula, dai cui occhi però saettava fuoco. Nera, col pelo lucido, altera, aveva lo sguardo della gran dama offesa per essere stata trascinata in un bordello. Forse il sangue le si rivoltava, nel trovarsi attorno vilissime bestie da soma, lei certo figlia di un peccato giovanile di una puledra di razza!
Quello di mio padre per quell’animale fu un amore a prima vista. Corse dal compare e lo invitò a interessarsi. Quale non fu la sua meraviglia quando, per quei pochi soldi, poté afferrare la corda della cavezza di quella bestia per condurla verso la sua stalla! Solo dopo qualche ora comprese l’arcano; era una bestia ancora selvatica che non sopportava in groppa neppure il basto. Per i suoi trent’anni fu un invito a nozze: intelligenza e forza contro orgogliosa indomabilità! Avvicinarsi alla mangiatoia dove era la biada provocava uno spettacolo senza pari, sempre, sino a quando dovette lasciare la nostra stalla: il muso lanciato in avanti e la corda che la fissava al muro tesa allo spasimo, la criniera violentemente schiaffeggiante i due lati del collo o fissa in erezione, la pelle del dorso e della pancia scossa da violenti fremiti, le due zampe anteriori puntate solidamente in terra, mentre le posteriori, sincroniche, si proiettavano scalcianti verso il soffitto; una furia, la furia! Caloriu, torniccilla!, continuava a ripetere mia madre. Ma lui aveva compreso che per creare la “sua” famiglia una sola furia – la sua – non bastava; con quell’altra la coppia era perfetta e l’avvenire economico era sicuro; la tenne!
Il braccio di ferro fu sfibrante e la bestia alfine si arrese alla volontà del padrone solo per paura. Fu un giorno in cui ruppe la corda e fuggi via. Prenderla fu un vero “rodeo”: la prese al laccio, ma quando tentò di rimetterle la cavezza, la furia si scatenò di nuovo. Fu il momento della verità! I due sguardi s’incrociarono, feroci; mio padre le si portò accanto, si avventò, la afferrò per le due zampe di sinistra e la scaraventò a terra! Fu paura quella che si impossessò della bestia: tremava, non reagì più! Era la resa, era vinta, era doma!
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