Dovunque v’è un insediamento umano, stabile o temporaneo, lì giunge sempre il solito “dritto” col bernoccolo del commercio. Fu il caso del feudo della Dagara degli anni Trenta del secolo XX, luogo isolato sui monti Nebrodi in territorio di Galati Mamertino, abitato, nei pochi mesi consentiti dal clima, pressoché solo da uomini. Come poteva lì mancare uno spaccio col pane, le sigarette, il sale, ma soprattutto il vino, oltre alla possibilità di consumare un rustico spuntino?

A mettere su una trattoria con pietre e calce non c’era neppure da pensarlo, sia perché antieconomico, sia perché una muratura, se non molto solida, non avrebbe retto al peso di due metri di neve e oltre che si ammassava su quelle montagne nel cuore dell’inverno. Allora l’ingegno ovviava all’inconveniente: una decina di tronchi di robusto faggio creavano la struttura portante e poi tante traverse più sottili completavano lo scheletro di una costruzione. I rami delle ginestre, le felci e una serie di robuste liane diventavano tetto e pareti: un locale chiuso così era bello e fatto. dentro si dava un posto al bancone, alle scansie, alla bilancia, lì qualche cesta per contenere il pane. Il formaggio, qualche salame e il prosciutto venivano conservati in uno stipo grossolano con rete di protezione sul davanti: zanzare, vespe e mosche, attirate dal forte odore del pecorino, vi danzavano davanti da mattina a sera senza mai arrendersi. Su un rustico cavalletto in un angolo era la botticella, fida amica del duro lavoro: questa era una baracca!

Perché si fosse trasformata in rustica trattoria bastavano due forconi, conficcati qualche metro più in là, un tetto fatto di foglie, qualche rusticissimo tavolo e delle panche per sedere, che a volte erano tronchi d’albero segati a 30-40 centimetri. Arredo immancabile era infine un recipiente in ferro – a tannura, destinata a contenere i carboni accesi, su cui si poggiava una graticola bisunta. Tanto bastava a creare una sontuosa cucina con la possibilità di un arrosto di castrato o, a volere spendere meno, di carne di capra. A quell’altezza e dopo quelle fatiche, ogni cibo acquistava un suo sapore gradevole, mentre un bicchiere di vino era il premio più ambito.

Qui ci si recava spesso di sera a chiudere la giornata. Il “menu” non consentiva scelte; arrivavamo alla baracca, sedevamo su uno sgabello attorno al tavolo e le misure da un litro – di vino, s’intende – cominciavano la danza. Intanto che la carne si arrostiva, al centro della mensa facevano la loro apparizione peperoni e melanzane sott’aceto, olive e sarde salate. Nell’aria l’odore intenso dell’arrosto si spandeva spavaldo e aggressivo, riempiva le narici e saliva abbondantissima inumidiva il palato, sì che prepotentemente si doveva fare ricorso alla bottiglia che frattanto si vuotava. E l’oste che bene lo sapeva, si precipitava a rimpiazzarla.

(Per leggere l’intero articolo di Salvatore Vicario, clicca qui)